A Parigi, nel XIII arrondissement, c’è un piccolo complesso residenziale conosciuto come “Petite Russie”. È un gruppo di casupole bianche schierate su due file, circondate da una terrazza comune, al di sotto delle quali si distende un’ampia zona garage. Fu costruito nel 1912 per conto di una compagnia di taxi che voleva offrire alloggi a buon mercato ai suoi dipendenti, in gran parte emigrati russi.
Ce n’erano parecchi, in quegli anni, di tassisti russi a Parigi, e il loro numero aumentò notevolmente dopo la rivoluzione del 1917, quando nella capitale francese si riversarono migliaia di cosiddetti “rifugiati bianchi”. Era gente di ogni sorta e classe sociale, in fuga dal regime bolscevico: letterati, medici, imprenditori, ingegneri, professori universitari, militari, studenti. Furono costretti a lasciare la Russia per non essere incarcerati o peggio ancora uccisi, ritrovandosi catapultati nella caotica realtà parigina, spesso senza parlare una sola parola di francese, in una metropoli che non gli riconosceva né lo status precedente né i titoli di studio ottenuti in patria. Dovettero ripartire da zero, reinventarsi, imparare a convivere con la nostalgia di casa, talvolta affogandola nell’alcool. Molti si misero a fare i tassisti. D’altronde, in quel periodo era uno dei modi più semplici per sbarcare il lunario, almeno temporaneamente: non era richiesta una conoscenza perfetta del francese, bastava prendere la patente, sapersi orientare nell’intricato reticolo di strade della città ed era fatta.
Gajto Gazdanov arrivò a Parigi nel 1923, a vent’anni, anche lui dopo aver combattuto, poco più che adolescente, la guerra civile russa nelle fila dell’Armata Bianca. A differenza di tanti compatrioti, però, Gazdanov imparò rapidamente il francese, riuscendo a parlarlo quasi senza accento. Dapprima trovò lavoro come operaio in uno stabilimento della Renault, poi fu assunto come impiegato amministrativo dalla casa editrice Hachette, resistendo appena tre mesi alla noiosa routine dell’ufficio. Infine gli toccò il destino di molti altri intellettuali emigrati della “prima ondata”: si mise pure lui a guidare il taxi. Preferì fare i turni di notte, così durante il giorno poteva frequentare le lezioni alla Sorbona, leggere, ma soprattutto scrivere racconti che vendeva ad alcuni giornali russofoni pubblicati in Europa. Probabilmente all’inizio Gazdanov immaginava che sarebbe stato l’ennesimo lavoro transitorio. Finì col restare al volante quasi venticinque anni.
Strade di notte è il condensato di quel quarto di secolo trascorso a bordo del suo taxi. È una cronaca romanzata della Parigi notturna degli anni Venti e Trenta, con la sua fauna insonne e sbandata, gli ubriachi in vena di filosofia, le prostitute desiderose di cambiar vita, i magnaccia imborghesiti, gli accattoni senza speranza, e naturalmente gli emigrati russi, tanti emigrati russi, che Gazdanov ritrae come malinconici, disorientati, alla ricerca di un senso lontano dall’umanità e dai paesaggi della perduta madrepatria. «C’è tutta Mosca, a Parigi!», urla una delle numerose sagome senza nome e senza volto che popolano il romanzo, o meglio che si prendono la scena per qualche istante, comparendo e scomparendo alla svelta, un po’ come compaiono e scompaiono fuori dal finestrino gli edifici, le insegne luminose, le vetrine dei negozi mentre si viaggia su un taxi di notte.
Alcuni personaggi sono invece presenze ricorrenti nelle traversate notturne del protagonista-alter ego. Sono tipi bizzarri che personificano con esattezza l’atmosfera di una Parigi traboccante di vita e dunque di decadenza, perché è evidente, sembra dire in certe pagine Gazdanov, che dove c’è vita c’è decadenza, benché il contrario non sia necessariamente vero. A testimoniarlo, in Strade di notte, è la triste storia di Jeanne Raldi, ex amante del duca d’Orleans, donna di mezza età un tempo bellissima e contesa dagli uomini del demi-monde parigino, finita a battere il marciapiede per potersi permettere una stanzetta misera. «Per la Raldi esisteva un’unica forma di felicità possibile, ossia quella che aveva venduto o concesso per tutta la sua lunga vita e cui il resto faceva soltanto da insignificante corollario», scrive Gazdanov. Ecco il dramma del decadimento fisico, economico, spirituale: venuta a mancare questa forma di felicità, la sensualità poderosa che la rendeva possibile, alla Raldi non rimane che spegnersi lentamente, lontano dallo sguardo ormai indifferente della schiera di ex amanti. Un declino di altra natura, ma non meno inconsueto, è quello che tocca a Platone, alcolizzato-filosofo che tutte le notti siede al bancone di un caffè scolandosi un bicchiere dopo l’altro: «[…]Era laureato, aveva vissuto in Inghilterra, aveva una bella moglie, uno splendido bambino e non gli mancavano neanche i soldi. Poi, però – era svanito tutto; lui aveva lasciato la famiglia, la famiglia aveva lasciato lui, e si era ritrovato solo. Era cortese e affabile; piuttosto istruito, conosceva due lingue straniere, la letteratura, e a suo tempo aveva anche scritto una tesi di filosofia – non ricordo su chi, forse addirittura su Böhme».
Che nella Parigi di quegli anni la decadenza fosse cosa assai diffusa, e che questa potesse condurre facilmente all’irrilevanza, quindi alla morte, Gazdanov lo suggerisce anche attraverso le vicende del russo Federčenko. La sua parabola discendente inizia con il tentativo di integrarsi nella società francese, prima sposando Suzanne, un’ex prostituta di cui non conosce il passato, in seguito aprendo una tintoria che gli permette di fare una vita dignitosa; una parabola che si conclude inevitabilmente nella follia, in una serie di insolubili dilemmi esistenziali in qualche modo legati all’allontanamento dalla Russia. Da questo punto di vista, Strade di notte può essere annoverato tra i romanzi della zarubežnaja literatura, la letteratura dell’emigrazione, poiché racconta la straniante, e per certi versi ridicola, condizione che contraddistingueva molti emigrati russi, rifugiati più in senso psicologico che politico. Come i due attivisti antibolscevichi Ivan Petrovič e Ivan Nikolaevič, che Gazdanov descrive così: «Seduti uno di fronte all’altro al tavolo di quel ristorantino dopo un pasto costato più o meno otto franchi a testa, entrambi malvestiti, con le giacchette lise, le camicie poco pulite e i pantaloni con l’orlo sfrangiato, discutevano di uno Stato di cui non erano cittadini, di soldi che non avevano, di armi che non possedevano, di diritti su cui non potevano contare e di barricate che non avrebbero mai innalzato».
Strade di notte uscì per la prima volta a puntate su Sovreménnye zapiski (Memorie contemporanee), una rivista russofona fondata a Parigi, che lo pubblicò parzialmente tra il 1939 e il 1940. Non ebbe il successo immediato del suo esordio, Una serata da Claire (1929), ma contribuì a far conoscere ulteriormente Gazdanov nel circuito letterario russo in Europa, ambiente in cui era già molto apprezzato, tanto che negli anni Trenta fu spesso accostato a un altro giovane scrittore emigrato di talento, Vladimir Nabokov. Con il suo stile disincantato, a tratti amaro eppure mai impietoso, Gazdanov anticipò alcuni temi dell’esistenzialismo francese: l’assurdo, lo spaesamento, la ricerca di un posto nel mondo. «Mi sembrava di vivere in un gigantesco laboratorio dove le diverse forme di esistenza umana venivano sottoposte a esperimento, dove il destino si divertiva a trasformare le belle ragazze in vecchie, i ricchi in poveri, gli onesti in mendicanti di professione, e lo faceva con una perfezione straordinaria, incredibile», racconta nel libro Gazdanov. Per questa sua tendenza alla riflessione sulla precarietà dell’individuo di fronte al mondo, nel dopoguerra qualche critico lo paragonò timidamente ad Albert Camus. Strade di notte sembra però avere un legame invisibile con altri autori, altri libri di difficile definizione come Fame di Knut Hamsun, Chiedi alla polvere di John Fante e La vita agra di Luciano Bianciardi. E forse ciò che li accomuna è proprio l’indefinibilità, la non appartenenza a un genere preciso, la maniera in cui soltanto i grandi romanzi riescono a tirar fuori dall’esperienza autobiografica tutto il grottesco e il dramma e le felicità che vanno e vengono, insomma quella faccenda complessa che per comodità chiamiamo vita. ♦